FOSSE ARDEATINE

23 marzo 1944

A Roma un nucleo dei “Gap” attacca una colonna tedesca in via rasella, provocando una durissima rappresaglia ai danni della popolazione civile: l’ordine di passare per le armi dieci ostaggi italiani per ogni tedesco rimasto ucciso, porta il 24 marzo all’eccidio, eseguito dagli uomini della Gestapo al comando del colonnello Kappler, di 335 detenuti politici, in una cava nei pressi della via ardeatina.

La chiesa condanna il movimento partigiano, accusandolo di essere un ulteriore elemento di disordine in una situazione fortemente deteriorata.

Tra gli antifascisti si accende una polemica sulle azioni che fanno ricadere sulla popolazione civile gli effetti delle feroci rappresaglie tedesche.

 

L’opera del CLN romano, nel momento in cui dovrebbe raccogliere le sue forze per puntare deciso verso la fase finale della lotta di liberazione, superando difficoltà di rapporto politico tra le diverse componenti, deve affrontare un’altra e ben più grave circostanza : la perdita di gran parte dei migliori quadri, dei più decisi combattenti in ogni settore, nel massacro delle FOSSE ARDEATINE, nell’episodio chiave della RESISTENZA ROMANA. Che è anche uno degli episodi fondamentali della guerra di liberazione e come tale richiede un giudizio impegnativo e deciso.

C’è da notare anzitutto che l’attentato di via RASELLA non è un episodio isolato, ma il coronamento d’una lunga serie di azioni condotte dai GAPPISTI romani in piena città : tutte azioni che non avevano dato a quel momento luogo a rappresaglia, ma soltanto fatto aumentare le misure di sicurezza prese dai tedeschi nella “CITTA’ APERTA” (prolungamento del coprifuoco, divieto d’uso della bicicletta nelle vie centrali, ecc.). Se c’è qualche elemento che lo distingue, che gli dà un posto particolare nell’attività dei GAP è il carattere di estrema precisione e di estrema audacia con cui viene eseguito: non più la bomba a tempo depositata nella sede dei comandi tedeschi o scagliata all’improvviso da un veloce ciclista o la sventagliata di mitra che fa giustizia, ma una vera operazione di guerra studiata e preordinata in ogni minimo particolare. Si tratta di colpire il nemico, le cui colonne transitano per via RASELLA abitualmente ogni giorno alla stessa ora, come notato dall’organizzazione clandestina, senza che esso possa fiutare l’insidia o possa in seguito reagire annientando i nuclei partigiani. Il problema è risolto nel modo più semplice, il partigiano che deve accendere sul luogo la miccia è travestito da spazzino e sosta sul luogo senza destare sospetti, vicino al carretto delle immondizie dov’è collocato l’esplosivo; una serie di GAPPISTI è appostata nelle vicinanze in modo da segnalare con un gesto convenzionale l’avvicinarsi della colonna nemica. Un altro nucleo di partigiani è appostato in una trasversale di via RASELLA ed è pronto a far fuoco sui tedeschi i quali, s’immagina, cercheranno scampo in tale direzione, ripiegando dal luogo dell’esplosione. Tutto ciò si svolge nel modo previsto.

All’ora stabilita del 23 marzo (o per essere esatti con qualche lieve ritardo), la colonna nemica transitante per via RASELLA viene investita dallo scoppio della bomba e poi dal fuoco preciso dei partigiani appostati : risultano 32 morti e numerosi feriti di cui uno soccombe in seguito. Ciò che non è previsto è la reazione tedesca nella forma atroce che essa assume. Prima accorre il comandante MAELTZER minacciando di spianare al suolo tutto il quartiere : dopo un concitato scambio di informazioni e di ordini fra l’organizzazione locale delle SS (KAPPLER), il Quartiere generale in Italia e Berlino, KESSERLING decide di fucilare “dieci detenuti già condannati a morte per ogni tedesco caduto” e nelle prime ore del pomeriggio del 24 s’inizia il carico degli ostaggi nelle carceri romane. Poiché ne mancavano 50 questi vengono richiesti e sollecitamente consegnati in “sovrannumero” dal questore CARUSO.

“DIECI PER UNO” fu la parola d’ordine nazista, ma essa venne eseguita, come dire, in forma spiccia e grossolana : non solo si trattava nella quasi totalità dei casi di detenuti in attesa di giudizio o anche condannati, ma non a morte, oppure di ebrei razziati, ma si sbagliò, nella fretta, anche il computo : invece di 330 le vittime condotte al luogo dell’eccidio furono 335 e la differenza è data da coloro che furono caricati sugli autocarri “per sbaglio” dal boia KAPPLER.

Il primo ad avere qualche sintomo del massacro fu un sacerdote che, percorrendo la via ARDEATINA nel pomeriggio del 24, trovò bloccata la strada e udì levarsi dai primi autocarri in arrivo il canto “Si scopron le tombe…”. La strage fu compiuta fucilando alla nuca le vittime prescelte e sospingendole verso l’interno della cava. L’ingresso delle grotte furono poi minate e fatte saltare nel tentativo di occultare l’eccidio.

LE VITTIME

Caddero fianco a fianco le più luminose figure della Resistenza romana, uomini di tutti i ceti e di tutte le ideologie politiche. Gli operai VALERIO FIORENTINI, l’organizzatore comunista della lotta nelle borgate, e ARMANDO BUSSI, il più attivo e popolare dirigente delle squadre del Partito d’Azione, gli intellettuali GIOCCHINO GESMUNDO comunista che lasciò scritto nelle sue carte : “Se dovessi pur morire che farei di straordinario ? Non altro che il mio dovere”; e PILO ALBERTELLI, responsabile militare del Partito d’Azione, che lasciò in eredità il suo sublime silenzio dinanzi alle torture più spietate (come è annotato nella relazione per la medaglia d’oro, aveva detto ai suoi aguzzini: “Adoperate pure le vostre armi e i vostri mezzi. Io uso quella che m’è rimasta, il silenzio”). Gli ufficiali effettivi colonnello MONTEZEMOLO, il maggiore organizzatore della Resistenza nel settore “militare”; il generale SIMONI, eroe della prima guerra mondiale, che aveva resistito per due giorni a Caporetto con un esiguo gruppo di uomini; il generale FENULLI, vice comandante della Divisione Ariete, protagonista, negli splendidi combattimenti del 9 settembre, dell’ultimo disperato tentativo d’accorrere in difesa della capitale. I giovani appena adolescenti, come ORLANDO ORLANDI POSTI, sul cui corpo è stato rintracciato il più tragico documento delle FOSSE ARDEATINE, un diario da lui scritto in carcere, su alcuni corrosi foglietti che contengono, nel verso, le linee e i numeri dell’ancor fanciullesco gioco della “battaglia navale”. Aveva compiuto 18 anni il 14 marzo, e aveva annotato egli, il più innocente, già le ragioni più profonde del futuro martirio : “Signore Iddio fa che finiscano presto le sofferenze umane che tutto il mondo sta attraversando, fa che tutti tornino alle loro case e così torni la pace in ogni famiglia e tutto torni allo stato normale”.

IL COMUNICATO GERMANICO SUI FATTI

A cose fatte il Comando germanico emanava il lugubre comunicato :

“Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 elementi criminali hanno eseguito un attentato con lanci di bombe contro una colonna tedesca di polizia in transito per via RASELLA. In seguito a questa imboscata 32 uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da COMUNISTI BADOGLIANI. Sono ancora in atto le indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi ad incitamento angloamericano. Il comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo – tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco perciò ha ordinato che per ogni tedesco assassinato dieci criminali comunisti badogliani siano fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito.

IMPLICAZIONI MILITARI E STRATEGIA POLITICA

Varie sono le considerazioni da fare sull’accaduto di via RASELLA e sulla inaudita e tragica reazione tedesca. Da parte tedesca vi furono di certo valutazioni di ordine militare. Dirà KESSERLING al processo di Venezia nel 1947 : “Si temeva che l’attentato di via RASELLA fosse preludio dell’insurrezione generale stabilita in concomitanza con l’offensiva alleata”. Probabilmente non è la sola causa. Emerge anzi il dubbio che, se non all’inizio, almeno nel corso dell’attuazione della strage, ci sia stato un motivo “politico”: i nazisti vibrarono il colpo così forte e non ebbero ritegno a ostentare tutta la propria ferocia, perché “sapevano” che la situazione della Resistenza romana era debole, perché conoscevano la sua profonda scissione al vertice nei due settori facenti capo rispettivamente al governo del Sud e al CLN. Visto sotto questo aspetto l’inciso del comunicato germanico, non è semplicemente la rozza constatazione della raggiunta unità della Resistenza ove il sacrificio è comune, ma cela, forse, un sottile e perfido sarcasmo per “l’utopia” dell’unità che porta, malgrado tutto, “COMUNISTI” e “BADOGLIANI” a morire fianco a fianco.

Certo è che il massacro delle ARDEATINE cominciò fin da allora ad essere sfruttato dalla propaganda nemica per gettare il germe del dubbio, che il suo ricordo tenuto volutamente oscuro e confuso, divise più che unire la popolazione di Roma, la sua parte più avanzata e democratica dalla massa incerta e fluttuante del ceto medio. E’ un germe di dubbio che verrà pazientemente coltivato dalle forze della reazione appena ripiglieranno fiato, una triste eredità lasciata ancor oggi dal nazifascismo nella capitale d’Italia. Fra le altre menzogne di cui si serve la propaganda di denigrazione della Resistenza c’è quella che si riferisce alla presunta “promessa” dei tedeschi di sospendere l’ordine di fucilazione degli ostaggi se si fossero presentati i responsabili dell’attentato. E’ una menzogna sfacciata perché non c’è cenno di tale “promessa” nei giornali fascisti, né in alcun documento dell’epoca. Del resto, in questo e in simili casi, la risposta dev’essere netta e precisa : quale fu quella che ( al comunicato germanico del 27 marzo, in cui si affermava impudentemente di aver sempre rispettato le norme della “città aperta” e di aver agito soltanto “nell’interesse della città di Roma e per il bene della popolazione civile”), dette allora il Comando dei GAP : “CONTRO IL NEMICO CHE OCCUPA IL NOSTRO SUOLO, CHE SACCHEGGIA I NOSTRI BENI, PROVOCA LA DISTRUZIONE DELLE NOISTRE CITTA’ E DELLE NOSTRE CONTRADE, AFFAMA I NOSTRI BAMBINI, RAZZIA I NOSTRI LAVORATORI, TORTURA, UCCIDE, MASSACRA, UNO SOLO E’ IL DOVERE DI TUTTI GLI ITALIANI : COLPIRLO, SENZA ESITAZIONE, IN OGNI MOMENTO, DOVE SI TROVI, NEGLI UOMINI E NELLE COSE”.

Questi erano i limiti della lotta e in nessun caso, se si voleva condurla energicamente e coerentemente, si poteva cedere alle “promesse” o al ricatto dell’invasore; in nessun caso i delitti dell’oppressore potevano invocare a propria giustificazione la sacrosanta reazione degli oppressi.

“L’errore” della Resistenza romana considerata nel suo complesso, fu, caso mai, un altro, anzi l’opposto : fu quello di non essere riuscita, dopo le FOSSE ARDEATINE, a portare avanti, in modo continuo e unitario, l’offesa al tedesco, a rendere più continua e intensa l’attività armata : che era oltre tutto, come dimostrò l’esperienza della guerra di liberazione, l’unico modo concreto per porre un limite al metodo della rappresaglia, per costringere il nazista a rinunciare a questo strumento efferato del proprio dominio.

       Tuttavia anche dopo il 24 marzo le azione GAPPISTE continuarono, e gli stessi tedeschi furono costretti a riconoscere che lo scopo della rappresaglia era fallito. Ma l’iniziativa fu merito pressoché esclusivo dei partiti più decisi sulla via della Resistenza , e non l’espressione della volontà unitaria del CLN.

La mancanza di unità nella direzione della lotta e la debolezza politica che contraddistinse l’organo centrale, furono le condizioni soggettive che impedirono alla Resistenza romana di raggiungere quel punto d’approdo che lo spirito di sacrificio e il coraggio dei partigiani, meritavano. A ciò si aggiunsero difficoltà oggettive, quali la composizione sociale della grande città (costituita per lo più dal ceto medio della burocrazia di Stato, con una presenza ridotta, anche per scelte del fascismo, di classe operaia), e la vigile presenza del Vaticano, importante crocevia di contatti e trattative tra le parti in conflitto, che suggeriva l’attendismo, piuttosto che l’azione contro la presenza tedesca nel territorio.

IL TERRORE CONTINUA

Su tutto gravava la cappa del terrore nazista, e gli strumenti ancora perfetti e non logorati della polizia provvista di una larga rete di confidenti e di spie. Annidato nelle caverne del Socrate, il maresciallo KESSERLING sorvegliava personalmente “l’ordine pubblico” nella capitale, emanando una serie di proclami, ora minacciosi, ora allettanti. E se ne videro ben presto gli effetti. Il 7 ottobre 1943, furono catturati nelle caserme di Roma e deportati in Germania 1500 carabinieri, rei soltanto di “delitto di pensiero”, cioè di conservarsi nel loro intimo fedeli al giuramento prestato al re. Il 16 ottobre furono catturati nel ghetto e deportati in Germania, 2091 ebrei, rei soltanto di essere nati da un seme diverso da quello delle SS naziste.

Nel dicembre del 1943 Roma vide la più “gigantesca caccia all’uomo” che mai sia stata fatta in Italia. Migliaia e migliaia di cittadini furono rastrellati nelle strade e trasferiti, nel migliore dei casi, al lavoro obbligatorio nelle retrovie germaniche. E Roma raggiunge ben presto un altro triste primato, quelle delle camere di tortura : via TASSO affidata alle SS di KAPPLER, la pensione IACCARINO covo del criminale fascista KOCH : due nomi il cui solo ricordo suscita orrore e odio per i carnefici, pietà e orgoglio per i patrioti. Due nomi che ancora rievocano il tragico calvario di centinaia e centinaia di patrioti romani.

VIA RASELLA FINO AI TEMPI NOSTRI

L’attentato di via RASELLA fu un atto di guerra e non una strage. Lo ha deciso la prima sezione penale della Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso presentato dai legali dei tre partigiani PASQUALE BALSAMO, ROSARIO BENTIVEGNA, e CARLA CAPPONI, contro l’ordinanza di archiviazione disposta dal GIP di Roma, MAURIZIO PACIONI, il 16 aprile 1998.

E’ una sentenza importante. Il GIP aveva deciso l’archiviazione, si, ma con una sentenza che affermava “l’estinzione del reato per amnistia”. Era una formula che non poteva naturalmente soddisfare i tre partigiani, né la memoria e la sensibilità di chiunque avesse collaborato all’azione. BALSAMO, BENTIVEGNA e CAPPONI erano stati denunciati dal familiare di una vittima civile dell’esplosione. La suddetta amnistia poteva essere valida solo in rapporto a un reato, mentre i partigiani ritenevano di aver compiuto, come si diceva, un “atto di guerra”. La Cassazione ha dato loro ragione. Con questa decisione si chiude un cinquantennio di vergognose speculazioni e di attacchi denigratori contro i partigiani che hanno condotto l’azione di via RASELLA. E cade miseramente un’azione giudiziaria che, come ha scritto la Cassazione, aveva i crismi dell’abnormità giuridica e storica.

ROMA “CITTA’ APERTA”

Dichiarata “città aperta” il 10 settembre 1943, luogo nel quale non dovevano svolgersi attività militari, Roma fu l’unica città italiana ad essere liberata senza la partecipazione attiva del movimento partigiano, cioè senza il manifestarsi della sollevazione popolare che anticipasse o comunque accompagnasse l’ingresso delle truppe alleate nella loro risalita della penisola.

L’ingresso delle truppe alleate avvenne nella giornata del 4 giugno 1944, dopo febbrili trattative tra tedeschi e alleati presso la sede vaticana.