Il 1943 si presenta come l’anno più tragico per l’Italia e gli Italiani, ma anche foriero di azioni di riscatto a fronte di immani sacrifici, per conquistare la libertà e la democrazia. Della tragedia fanno testimonianza la disastrosa campagna dell’Armata Italiana in Russia, con la ritirata di fine gennaio e decine di migliaia di morti e di prigionieri, la resa il 12 maggio agli angloamericani del contingente italo germanico nell’Africa Settentrionale al termine di un sanguinoso conflitto e centinaia di migliaia di prigionieri, l’occupazione decisa da Hitler del territorio italiano da parte di ingenti forze armate tedesche dopo il 25 luglio con il piano “Alarico”, poi piano “Costantino”, e infine piano “Asse”, che prevedeva il disarmo delle unità militari italiane in caso di disimpegno nell’alleanza da parte italiana. Tra le azioni di riscatto ricordiamo i massicci scioperi operai per il pane e per la pace del marzo nel triangolo industriale di Torino, Milano e Genova, la caduta e l’arresto di Mussolini il 25 luglio dopo il voto favorevole all’O.d.G. Grandi del Gran Consiglio del Fascismo, la ripresa di attività delle forze politiche antifasciste e il dispiegarsi dopo l’8 settembre, in collaborazione con gli alleati e i movimenti di liberazione europei, della attività resistenziale organizzata su tutti i territori, in Italia e all’estero, occupati dai nazifascisti.
Lo scorso anno in questa sala abbiamo ricordato le drammatiche vicissitudini degli IMI, Internati Militari Italiani nei lager nazisti, militari italiani catturati sui fronti di guerra dopo l’8 settembre 1943, citando la testimonianza diretta del nostro concittadino ten col. Armando Testa. Nei campi di concentramento 650.000 militari dissero NO al collaborazionismo con le forze armate naziste e fasciste. Di questi circa 30.000 non fecero ritorno a casa. Oggi ricorderemo fatti avvenuti dopo l’8 settembre 1943 che ebbero per protagonisti militari italiani che si opposero alla consegna delle armi imposta dagli occupanti tedeschi e le fasi di riorganizzazione delle forze armate italiane che si unirono agli Alleati nella liberazione del Paese. Alleati già presenti sul nostro territorio dopo lo sbarco in Sicilia, tra Siracusa e Licata, il 10 luglio 1943 (operazione Husky), la rapida conquista della Sicilia (16 agosto a Messina), e l’azione di risalita in Calabria con sbarchi e aviolanci in Puglia e Campania.
Su tutti sono da ricordare in particolare i Caduti della Divisione “Acqui” acquartierata nelle isole dello Ionio, Cefalonia e Corfù, che rifiutò la consegna delle armi ai tedeschi e si oppose fino all’estremo sacrificio resistendo dal 14 al 22 settembre 1943 : di 11.500 effettivi rientrarono a Taranto, il 14 novembre 1944, 1.283 soldati. A Cefalonia caddero in combattimento circa 1.800 uomini, circa 3.500 tra ufficiali e soldati furono barbaramente fucilati dopo la resa, circa 2.000 perirono nel naufragio delle navi Ardena, Alma e Maria Marta che trasportavano prigionieri italiani, colpite da mine e da aerei alleati, circa 1.000 restarono nelle isole prigionieri per svolgere lavori forzati. A Corfù tra il 25 e 26 settembre i tedeschi trucidarono 36 ufficiali e 600 soldati.
La strage di Cefalonia fu di dimensioni inaudite. Un crimine contro ogni regola di guerra, anche la più dura, che il Tribunale di Norimberga definì “contro l’umanità”, deciso per volontà di vendetta da Hitler che ordinò di “non fare prigionieri”, ed eseguito dai reparti della Wehrmacth trasformati in veri e propri assassini. Alla Divisione “Acqui” furono concesse 5 Medaglie d’Oro al VM alle bandiere dei reparti, 20 MOVM alla memoria, 90 ricompense a Caduti e superstiti. Un sacrificio che unitamente a quello sofferto da tutti gli italiani che combatterono per riconquistare la dignità tra i popoli e l’indipendenza della Patria, deve divenire sempre più patrimonio comune e conosciuto della nostra nazione.
Lascio la parola a Mattia Barcella per una sintesi di quanto avvenuto alle unità militari italiane dopo l’8 settembre 1943.
DAL 25 LUGLIO ALL’8 SETTEMBRE 1943 E OLTRE.
Destituito e arrestato Mussolini, il re Vittorio Emanuele III affida il governo del Paese al maresciallo Pietro Badoglio, che nel suo primo discorso diffuso a tutto il Paese dichiara “la guerra continua”. Inizia il trasferimento massiccio di unità militari tedesche sul territorio italiano che si intensifica nel mese di agosto secondo un piano strategico deciso da Hitler. In una situazione di sostanziale passività del governo e degli alti comandi militari prevale la linea che chiede agli Alleati angloamericani l’armistizio. Dopo numerosi incontri segreti l’armistizio viene firmato il 3 settembre a Cassibile (provincia di Siracusa), prevede la resa senza condizioni.
L’annuncio ufficiale dell’armistizio viene reso pubblico dagli americani l’8 settembre superando reticenze ed incertezze del Governo Italiano, e confermato da Badoglio alle 19.45 dello stesso giorno, con la formula conclusiva “ogni atto di ostilità contro gli Alleati deve cessare, le Forze Armate italiane reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.
Dai comandi di Corpo d’Armata dislocati in Italia e nei paesi esteri occupati, vengono chieste direttive al Comando Supremo che risponde in modo incerto e contraddittorio creando sconcerto e grande confusione sul da farsi in caso di attacco da parte dei tedeschi. La paralisi nelle comunicazioni tra centro e periferia è totale e manca una qualsiasi strategia di difesa territoriale. Re e Governo sono più occupati a salvarsi che a dare direttive di comportamento, che arriveranno solo più tardi e non avranno alcuna efficacia, quando ormai è tutto compromesso. Il 9 settembre Re e Badoglio con il suo Governo abbandonano Roma, si imbarcano a Pescara e il 10 raggiungono Brindisi, preceduti di un giorno dagli Alleati.
Immediata la reazione tedesca. Pochi minuti dopo l’annuncio dell’armistizio scatta il “piano Asse” per il disarmo delle unità militari italiane, l’arresto e l’invio in Germania come forza lavoro di tutti coloro che scelgono di non collaborare. Circa 800.000 tra ufficiali e soldati seguiranno questa sorte, 650.000 resisteranno in prigionia alle lusinghe nazifasciste, 30.000 non faranno ritorno. Sono gli IMI gli Internati Militari Italiani, i testimoni dell’altra Resistenza.
Dopo l’8 settembre la situazione delle forze armate italiane è segnata da situazioni di decisa precarietà per la mancanza di coordinamento tra le grandi unità dislocate sul territorio, la mancanza di direttive che lascia spazio a decisioni e iniziative dei comandanti delle singole unità, in una situazione di fondo di grande disagio, di voglia di ritornare alle proprie case e famiglie, di farla finita con una guerra già costata centinaia di migliaia di morti e danni morali e materiali gravissimi. Tra i militari italiani prevale in definitiva la passività e la rinuncia alla difesa, il disorientamento.
Sul territorio italiano si manifestano casi isolati di collaborazionismo con i tedeschi (parte della Divisione paracadutisti Nembo di stanza in Sardegna), ma anche forme di resistenza armata organizzati da presidi locali (Trento, Livorno, Piombino, Isola d’Elba, Bari, La Maddalena, Gorizia, Napoli). Gli episodi più clamorosi avvengono a Roma e nei dintorni in particolare a Porta S. Paolo con il concorso di civili, con scontri cruenti ai quali partecipa anche il giovane tenente Giorgio Paglia. Nei combattimenti si contano 400 caduti tra i militari italiani e 150 tra i civili.
La resa firmata dal gen. Carboni, consente a Kesserling, comandante delle forze armate tedesche in Italia, di occupare Roma, il disarmo di 6 Divisioni italiane e lo sganciamento delle truppe tedesche inviate nell’area di Salerno per contrastare lo sbarco della 5^ Armata americana (operazione Avalanche prevista nelle clausole dell’armistizio)
Un aspetto particolare riguarda la Marina Militare : l’accordo con gli alleati prevedeva di trasferire il naviglio a Malta. Il 9 settembre da La Spezia partono le corazzate Roma, Vittorio Veneto e Italia seguite da 6 incrociatori e 9 cacciatorpediniere, da Taranto le corazzate Duilio e Andrea Doria con altre unità minori. Al largo delle acque tra Corsica e Sardegna la “Roma” è colpita da due bombe razzo lanciate da aerei tedeschi, e affonda portando con sé 1.352 marinai compreso il comandante ammiraglio Bergamini e tutto il suo stato maggiore, su un totale di 1.948 imbarcati. Il 65% della flotta per un totale di 260.000 t, raggiunse le basi alleate decise dall’armistizio.
Molto più complessa la situazione delle unità militari italiane nei Balcani, nello Ionio e nell’Egeo. Al collaborazionismo con i tedeschi di unità della Milizia Fascista, si contrappone il rifiuto di cedere le armi da parte di consistenti unità dell’esercito, rispondente anche ad un diverso teatro di guerra, dalla presa di coscienza di essere occupatori di suolo straniero, dai contraccolpi di una campagna a volte feroce contro le formazioni partigiane locali, dalla difficile convivenza con le forze armate tedesche che fanno la guerra da padroni.
Soprattutto nella Dalmazia meridionale, in Erzegovina, nel Montenegro, in alcune regioni della Grecia, nelle isole dello Ionio e dell’Egeo, si manifesta una spinta alla resistenza che costringe i tedeschi a sostenere violente e prolungate battaglie. L’episodio più noto è quello di Cefalonia dove la Divisione “Acqui” combatte per otto giorni dal 14 al 22 settembre, quando è costretta ad accettare la resa e viene in gran parte assassinata, compreso il comandante gen. Antonio Gandin. Sino al 26 settembre resiste la guarnigione di Corfù, i cui ufficiali dopo la resa sono passati per le armi. Fucilazioni indiscriminate si verificano anche in altre aree, da Spalato (dove la Divisione Bergamo combatte sino al 27 settembre), all’Albania (dove subiscono la stessa sorte 120 ufficiali della Divisione Perugia).
In Dalmazia, Montenegro e Albania Settentrionale i tedeschi accanitamente contrastati da reparti della Taurinense, Venezia e Fiume, devono rinunciare al disarmo e le forze italiane si riorganizzano entrando in rapporto di collaborazione con le forze partigiane locali, così come avviene per una parte della Divisione Pinerolo.
Episodi di accanita resistenza si verificano anche nelle isole del mar Egeo. A Rodi gli italiani rifiutano di eseguire l’ordine di disarmo e sono costretti alla resa dopo due giorni di duri combattimenti. Nelle Cicladi e nelle Sporadi spiccano i combattimenti di Lero che si protraggono dal 12 al 16 novembre e si concludono con pesantissimi bombardamenti tedeschi (determinanti in tutto lo scacchiere balcanico e greco per la sconfitta della resistenza militare italiana), con la resa e la fucilazione di numerosi ufficiali. A questi ultimi combattimenti partecipano anche reparti inglesi.
Nei Balcani come nello Ionio e nell’Egeo, così come avvenuto sul suolo italiano, i militari sopravvissuti vengono arrestati e inviati all’internamento in Germania (circa 600.000 in questo scacchiere), altri 200.000 restano in stato di prigionia nei territori in cui avevano operato come forze di occupazione.
In Grecia solo la Divisione Pinerolo si salva dalla dissoluzione e già l’11 settembre stipula un accordo di collaborazione con i partigiani greci dell’ELAS e EDES, che sfuma per incomprensioni e porta al disarmo dell’unità che tuttavia continua a combattere contro i tedeschi nella 9^ divisione greca ELAS insieme alle batterie d’artiglieria della Divisione Casale e del XIII battaglione della Guardia di Finanza..
In Albania il tracollo è rapido perché il Comando Gruppo Armate dell’Est (il più importante comando italiano nei Balcani con sede a Tirana), è catturato dai tedeschi e il grosso delle Divisioni internato. Singoli reparti e gruppi di soldati e ufficiali rifiutano la resa e cercano un accordo con i partigiani albanesi. Duri combattimenti con perdite gravi subiscono reparti delle Divisioni Firenze, Arezzo e Perugia. Analoga sorte per i battaglioni Mosconi, Zignani, Nuova Italia. Sopravvivono le batterie di artiglieria Menegazzi e Cotta (della Firenze), e il battaglione Gramsci che partecipano alla liberazione di Tirana nel febbraio 1945, e si trasformano prima in brigata e poi in divisione con oltre 2.000 effettivi.
In Iugoslavia la partecipazione italiana alla lotta armata di liberazione è più rilevante, e alla fine del conflitto i caduti italiani si contano a migliaia. Dalla dissoluzione delle divisioni italiane provengono migliaia di combattenti che collaborano organizzati in forma autonoma con unità dell’esercito di liberazione iugoslavo. Così avviene in Dalmazia per molti uomini della Bergamo, in Montenegro per la Venezia (con un referendum tra i soldati), e la Taurinense. In dicembre 1943 si forma la Divisione d’assalto Garibaldi forte di 5.000 uomini con un gruppo di artiglieria e altri 11 battaglioni ausiliari che partecipa alla liberazione di Belgrado. Una seconda divisione d’assalto, Garibaldi Italia, è costituita nell’ottobre 1944 formata da carabinieri e sbandati della Bergamo. Ad essa si uniscono altri due battaglioni, Mameli e Fratelli Bandiera. Questa Divisione continuerà a combattere fino al 12 maggio 1945, quando entra a Zagabria. Altre importanti formazioni italiane operano in accordo con gli iugoslavi nell’area slovena..
Sul territorio italiano dopo il crollo dell’8 settembre, il Governo tenta di riorganizzare le forze armate. Badoglio avvia trattative con gli Alleati per formare reparti dell’esercito da schierare contro i tedeschi, l’obiettivo è di legittimare la monarchia agli occhi degli Alleati e degli Italiani e chiede la liberazione dei circa 400.000 prigionieri di guerra internati nei campi di concentramento alleati in varie parti del mondo. La richiesta viene respinta. Altrettanti uomini si trovano nel sud del Paese liberato dagli alleati. Alla fine di settembre 1943 si trova un accordo per la formazione di una unità simbolica, il Raggruppamento Italiano Motorizzato Savoia (termine mai ufficializzato per la protesta dei soldati per il richiamo ai Savoia), con circa 5.000 effettivi provenienti da varie armi, aggregato alla 36^ Divisione Americana in prima linea a Cassino il 1° dicembre.(da ricordare l’eroica battaglia di Montelungo e la figura del capitano don Luigi Pezzoli cappellano militare, medaglia di bronzo al VM, poi parroco di Nese nel dopoguerra).
La situazione si evolve con la formazione del Corpo Italiano di Liberazione (CIL), forte inizialmente di circa 14.000 uomini, aggregato al V Corpo inglese operativo nel settore adriatico (tenuto lontano per non partecipare alla liberazione di Roma), poi nel II Corpo polacco, passato nel maggio 1944 a 24.000 effettivi, che partecipa alla liberazione delle città marchigiane. Il CIL viene sciolto il 24 settembre 1944, conta 337 caduti e 800 feriti.
Il nuovo rapporto di fiducia con gli alleati matura le condizioni per la formazione dei Gruppi di Combattimento Legnano, Friuli, Folgore, Cremona, Mantova e Piceno, con la consistenza di Divisioni con 9.000 effettivi ciascuno. Operativi militarmente i primi quattro gruppi partecipano alla liberazione dell’Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, con compiti territoriali gli altri due.
Il raggruppamento “Legnano” comandato dal gen. Utili, in collaborazione subordinata agli americani, partecipa alla liberazione di Bergamo e combatte l’ultima battaglia a Monte Nozzolo, sopra Brescia.
Non si può chiudere questa ricostruzione del periodo successivo all’8 settembre 1943 senza ricordare le decine di migliaia di militari che abbandonati i reparti ed eludendo l’arresto e la prigionia, o peggio l’immediata fucilazione da parte dei tedeschi, rientrarono nelle loro case e in seguito braccati dai nazifascisti come disertori scelsero di formare o di ingrossare le file delle formazioni partigiane di città e di montagna pagando un alto prezzo personale.
Riassumiamo tutti questi protagonisti nel nome del tenente alpino Giorgio Paglia, partigiano della 53^ Brigata Garibaldi “Tredici Martiri di Lovere”, Medaglia d’Oro al Valore Militare, nella guerra di Liberazione 1943-1945.
Viva il 25 aprile, viva il Tricolore, viva l’Italia libera e democratica.
Medaglia d’Oro al VM al Tenente di Fanteria Gennaro Tescione – Rodi. Decreto del Ministero della Difesa 30.7.1947
Medaglia d’Oro al VM al Ten. Col. Goffredo Zignani, in servizio presso il Comando della 9^ Armata che presidiava l’Albania. Dopo l’8 settembre rifiuta la resa e organizza un battaglione di uomini decisi a combattere i tedeschi in stretta collaborazione con i partigiani albanesi. Fatto prigioniero fu fucilato assieme al Col. Fernando Raucci il 17 novembre 1943.
Medaglia d’Oro al VM al Sten. Bersagliere Giuseppe Maras, comandante della Brigata d’Assalto Italia, che operò in terra iugoslava dopo l’8 settembre 1943. Partecipò alla liberazione di Belgrado e poi di Zagabria, rimpatriando nel luglio del 1945. Nella sua Brigata si contano 213 caduti italiani.
Motivazione della Medaglia d’Oro al VM alla Divisione “Acqui” in Patria Indipendente 22 aprile 2012, pag. 59
Un bilancio esatto del prezzo che i nostri militari dovettero pagare nei Balcani, Grecia, Ionio ed Egeo, con lo sbandamento di oltre 31 Divisioni (circa 700.000 uomini), non è stato ancora fatto : le perdite certe salgono a non meno di 20.000 soldati caduti in
combattimento o fucilati dai tedeschi, oltre a circa 1.000 ufficiali, molti di grado superiore e generale. In seguito ai fatti furono concesse 36 medaglie d’oro al VM ad ufficiali e soldati per atti di eroismo culminati nella quasi totalità con il sacrificio della vita.
Sacrario partigiano di Zabljak in Montenegro (1.450 metri s.l.), dove sono incisi sul marmo i nomi di 3.784 caduti. Numerosi i nomi di caduti “garibaldini italiani”
Sacrario di Pljevlja in Montenegro (canyon di Tara), dedicato ai caduti della Divisone partigiana italiana “Garibaldi”.
Monumento di Kruja, nell’Albania Centrale, che ricorda la battaglia per la difesa della città nei giorni 22, 23 e 24 settembre 1943, alla quale presero parte soldati della Divisione “Firenze”.
Per una descrizione dettagliata delle forze armate tedesche schierate a Cefalonia nel settembre 1943, vedere la relazione dello storico tedesco Gerhard Scheiber dal titolo “Prigionieri non se ne fecero. Erano questi gli ordini”, pubblicata da Patria Indipendente l’11 dicembre 2005, pag. 30 e seguenti, letta nell’incontro di Genova del 5 novembre 2005 sul tema “Cefalonia 1943. Valore e sacrificio della Divisione Acqui”. Nelle pagine precedenti sono riassunti gli atti dell’incontro.
“8 settembre 1943 : a migliaia i soldati attaccarono gli invasori nazisti”. Cifre e dati in relazione del gen. Franco Angioni presentata in un incontro a Portogruaro il 25 aprile 2007. Relazione riportata da Patria Indipendente nel settembre 2007, pag. 31 e seguenti, che riassume il contributo dato dalle Forze Armate Italiane nella guerra di Liberazione.
Delle oltre cento Divisioni italiane abbandonate dal Re e da Badoglio alla vendetta di Hitler, nessuna pagò un presso più alto della “Acqui” che a Cefalonia e Corfù tenne testa ai tedeschi per 15 giorni dopo l’8 settembre. La “Acqui”, reparti minori di marina e aviazione e guardia di finanza erano presenti sulle due isole con circa 20.000 uomini. Ne caddero in battaglia 1.800. Dei rimanenti in massima parte catturati, 6.500 fra cui 440 ufficiali, cioè quasi tutti, vennero trucidati dalla Wehrmacht. Più di 1.000 furono trattenuti a Cefalonia ai lavori forzati, gli altri furono spediti via mare in Grecia destinati ai lager, ma 2.700 perirono quando quattro navi vennero affondate da mine e bombe alleate.
La “Acqui” comandata dal gen. Antonio Gandin aveva a Cefalonia 11.500 uomini. La trattative di resa subito avviate con i tedeschi subirono un contraccolpo dall’iniziativa del capitano di artiglieria Renzo Apollonio e altri ufficiali quali Amos Pampaloni, che respinse a cannonate un tentativo di sbarco tedesco e dopo un ordine di resistere inviato da Brindisi. Il gen. Gandin indisse un referendum tra i soldati che chiesero di battersi. La Divisione pagò a un presso più che duro il suo rifiuto di consegnare le armi all’esercito nazista, che compì un massacro, uno degli atti più criminali compiuti dai tedeschi nella seconda guerra mondiale
24 aprile 2014 – “Le partisane”, auditorium Montecchio, ore 21
Affrontiamo questa sera un tema di grande importanza, spesso ignorato dalla pubblicistica resistenziale, o per lo meno lasciato ai margini a tutto vantaggio della sottolineatura “maschile” della Resistenza, richiamato solo dalla esigenza di rendere più completa la partecipazione popolare alla lotta di liberazione, senza tuttavia sottolinearne le specificità che derivano dalle funzioni assegnate alle donne dal fascismo e dagli ambienti ultraconservatori presenti soprattutto nel nostro territorio, e quelle successive svolte nel corso della seconda guerra mondiale, periodi nei quali le donne guadagnarono sul campo il completo riconoscimento istituzionale, prima con il voto a suffragio universale e poi con i contenuti legislativi e valoriali inseriti nella Carta Costituzionale Repubblicana.
Dell’apporto femminile alla lotta di Liberazione fanno testimonianza le capacità organizzative delle donne evidenti in modo particolare nei “Gruppi di difesa della donna”, associazione nata per volontà unitaria delle forze politiche antifasciste nel novembre del 1943, aperta a tutte le donne di ogni ceto sociale, di ogni fede politica e religiosa (da cui in seguito nasceranno l’UDI, Unione Donne Italiane, e il CIF, Centro Italiano Femminile), con lo scopo di “i difendere le donne e assistere combattenti della libertà”. Associazione che si sviluppò maggiormente dove erano più presenti e organizzate le formazioni partigiane, ma anche dove la coscienza civile e sociale e lo spirito di emancipazione delle donne erano più maturi e meno condizionati da rapporti di sudditanza con i poteri conservatori locali. Nella fase di espansione della lotta di Liberazione, nell’estate del 1944, dai GDD nasce l’iniziativa di organizzare i gruppi “Volontarie della Libertà”, che si propongono di unirsi ai distaccamenti partigiani e mettersi a loro disposizione come gruppi combattenti. Con questa generosa iniziative si amplia l’intervento delle donne in precedenza rivolto all’assistenza ai combattenti, alle famiglie, ai renitenti ed ex prigionieri, alla propaganda antifascista e antinazista dentro e fuori le fabbriche, al collegamento informativo tra le diverse brigate partigiane e i centri del CLN (staffette partigiane), l’approvvigionamento di vestiario, cibo, armi.
Alla fine della guerra di Liberazione saranno 70.000 le donne riconosciute appartenenti ai Gruppi di Difesa della Donna, 35.000 le partigiane combattenti, 315 commissarie e comandanti di formazione, 4.653 arrestate, torturate e condannate, 623 cadute e fucilate, 2.750 deportate nei campi di sterminio, 19 decorate di medaglia d’oro al valore militare, 17 di medaglia d’argento, un alto numero di medaglie di bronzo.
Che cosa aggiungere a queste cifre così drammatiche e così significative ? La conclusione più coerente può essere quella espressa da Luigi Longo, componente del CLNAI e del CVL : “Senza queste donne, non solo le partigiane, le staffette, le gappiste, ma le donne che organizzavano le manifestazioni nelle città e nelle campagne, che sfidavano i fascisti con gli scioperi, che facevano delle scuole città di libertà, il movimento partigiano non avrebbe potuto svilupparsi come si è sviluppato, e profondamente diversa sarebbe stata tutta la successiva storia d’Italia”.
Esempi di quanto andiamo dicendo si sono verificati anche ad Alzano Lombardo, dove tuttavia non sono mancati episodi di aperta accettazione, collaborazione, forse anche simpatia, di una parte del mondo femminile, sia del fascismo prima, che del successivo periodo di occupazione nazista, che ha visto acquartierate truppe tedesche nelle più importanti ville e palazzi. Si ricordano le agitazioni delle operaie presso le Cartiere Pigna (per la distribuzione di generi di prima necessità, per solidarietà contro le sospensioni e i licenziamenti di lavoratori dal lavoro), presso il cotonificio di Nese (contro i licenziamenti, l’opposizione alla deportazione in Germania, la distribuzione di viveri, l’anticipo di salario sulla base di una rivendicazione sindacale), presso il filatoio (contro i licenziamenti), la distribuzione di volantini per la pace e la fine della guerra, per portare un fiore ai “Caduti per la libertà”, per celebrare l’8 marzo festa della donna, contro i negozianti che favorivano la borsa nera dei generi di prima necessità, per sollecitare il comune a distribuire sale e legna (l’inverno 44/45 fu particolarmente rigido). Tra le figure femminili che parteciparono più attivamente alla resistenza senza armi, dobbiamo ricordare Piera Ranica, staffetta partigiana, di cui si dirà qualche particolare di vita nello spettacolo che seguirà.